Agli inizi dell’ 800, durante il decennio francese nel regno di Napoli, la città di Bari aveva uno straordinario orto botanico.
Gioacchino Murat, Re di Napoli, con un decreto stabilì che in ogni capoluogo di provincia del Regno, doveva avere una società di botanica o di agricoltura, con annesso orto botanico, per la sperimentazione e la produzione di essenze varie, piante agrarie e ornamentali, e fiori rari e pregevoli. Un vero e proprio centro di ricerca naturalistica.
Bari lo installò in riva la mare, in un punto importante e strategico della città. In fondo al C.so Vittorio Emanuele, e precisamente nel terreno dove oggi si erge il maestoso teatro margherita. Questa scoperta dell’ubicazione dell’orto botanico, è stata possibile accertarla grazie allo studio di documenti d’archivio custoditi nell’archivio di Stato di Bari, in particolare grazie alla consultazione di un fascicolo processuale del 1888, riguardante un efferato e macabro omicidio di stampo camorristico.
“Con un piede nella fossa” storie di malavita barese L.B. edizioni”
In una calda domenica di agosto, la famiglia Rossini stava trascorrendo qualche ora di spensieratezza nella cantina di Giovanni Sacco. i Rossini due giovani e onesti cittadini baresi, si sedettero ad un tavolo posto nel giardino retrostante sotto un grande albero di gelso rosso e ordinarono del vino fresco. Lorenzo Rossini, disgraziatamente, si rivolse a due delinquenti seduti al tavolo vicino per chiedere un orciuolo di vino più grande da poter utilizzare.
Ma senza alcun motivo, uno dei due avventori, tale Nicola Catalano, detto Varretta, spazzino di Bari, gli strappò la brocca dalle mani e gridò: «Vieni fuori che ti devo dire qualcosa». Richiamato dal trambusto, l’oste invitò i due ceffi ad uscire dal locale. A distanza di tre giorni dall’accaduto, i fratelli Rossini ritornarono all’osteria di Giovanni Sacco, questa volta insieme alla loro madre di nome Serafina, e ad un loro amico.
Varretta era nuovamente all’interno del locale, spalleggiato da alcuni suoi amici pregiudicati: Angelantonio De Nitti, Pietro Coppolecchia, e Carmine Servadio. Questa volta il Varretta non sembrava avere cattive intenzioni. Finito di bere il suo mezzo litro di vino, uscì dal locale e con la massima tranquillità si diresse verso il centro della città. Anche i Rossini, non avendo nulla da temere, pagarono il conto e si incamminarono verso il corso Vittorio Emanuele.
Quando d’improvviso, raggiunto il corso Cavour, nell’orto botanico di Bari (attuale teatro Margherita, ndr), i due gruppi si incontrarono nuovamente. Il De Nitti improvvisamente, con violenza, si avventò verso Lorenzo Rossini e con il suo coltello a serramanico, gli vibrò un fendente sotto la gola, tanto da recidergli la giugulare. Il povero Rossini cadde stramazzato di faccia a terra sotto lo sguardo atterrito di suo fratello, il quale nulla potè fare.
A quel punto, entra in scena il Varretta, che con macabra naturalezza, si chinò sul corpo agonizzante, lo girò verso di sé e, avvicinandosi alla gola scuarciata, ne succhiò il sangue per tre volte e disse: «Io sono Varretta e mi devo be re un bicchiere del tuo sangue». Un macabro rituale criminale praticato dai camorristi baresi! (Sic!)
Appena avuta notizia del fatto, i Carabinieri Reali con gli agenti di P.S. si recarono nell’orto botanico alla presenza di tanta gente che era accorsa. Il cadavere del Rossini, fra le lacrime dei parenti e amici, venne adagiato su di una sedia e portato scortato dai Carabinieri nella propria casa di via Carmine.

Il giorno successivo l’omicidio del povero Rossini, Angelantonio De Nitti si costituì ai Carabinieri Reali della stazione di Bari-Porto. Anche il Varretta, dopo aver pianificato la sua difesa con il suo legale,si presentò in Questura. Interrogato dagli inquirenti, dichiarò che al momento dell’omicidio non aveva con sé alcun coltello e negò di aver succhiato il sangue di Rossini.
Ma gli imputati Servadio e Coppolecchia, complici del Varretta, fornirono al giudice istruttore una versione diversa dell’agguato: «Il De Nitti ha vibrato un colpo di coltello al Rossini e questo è caduto in terra senza dire nulla. Il De Nitti come ha visto cadere il Rossini è fuggito come un lampo, e il Catalano si è piegato sul corpo del Rossini che boccheggiava, lo ha girato, e ha preso a succhiargli il sangue, mentre io e Coppolecchia restammo presenti senza fare e dire nulla. Il fratello dell’ucciso, prese allora a rimproverare il Catalano dicendogli di aver ucciso il fratello e di avergli succhiato il sangue, e il Catalano gli rispose: “È cosa di niente” e Rossini aggiunse: “Volete uccidere anche me? Uccidetemi!”». Dall’esame autoptico del cadavere, risulterà che a uccidere il Rossini era stata l’arma da taglio che aveva reciso la giugulare, penetrando fino all’aorta. Il giudice Fino, al termine del processo, nella sua relazione conclusiva circa la descrizione dei fatti, così commentò l’accaduto: «Catalano Nicola, nuovo vampiro del secolo».
Il 30 novembre 1888 la Corte d’Assise di Bari condannò tutti gli imputati ai lavori forzati: De Nitti a 14 anni, il Catalano “Varretta” a 20 anni, il Coppolecchia e il Servadio a 7 anni. A nulla servirà il ricorso in Cassazione avanzato dai loro avvocati. Il 17 maggio 1889, infatti, la Corte di Cassazione di Napoli, presieduta da Pirro De Luca, rigettò le istanze confermando le sentenze di condanna.
