Intervista a Mario Avagliano

Mario Avagliano, giornalista professionista e studioso di Storia contemporanea, è membro dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco. Ha diretto il Centro Studi della Resistenza dell’Anpi di Roma-Lazio. Alla Resistenza e, agli anni della persecuzione ebraica in Italia, ha dedicato un cospicuo numero di volumi, percorrendo  molteplici piste di ricerca. È stato uno dei protagonisti del film “1938. Diversi” (2018), dedicato alla promulgazione delle leggi razziali, all’impatto che esse ebbero sulla vita di tanti italiani che all’improvviso si scoprirono “diversi”,   presentato fuori concorso alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia e premiato con menzione speciale dell’HRNs Award ‒ Premio Speciale per i Diritti Umani. Lo abbiamo incontrato in occasione della conferenza “Dalle Leggi razziali del 1938 al razzismo di oggi: Che razza di Italiani siamo?”, tenutasi lo scorso 23 Febbraio a Turi, presso Casa delle Idee e l’Associazione Didiario.

Professore, allora, a fronte di tutto ciò che è accaduto e sta accadendo che razza di Italiani siamo? E’ ancora possibile parlare di Italiani brava gente?

«La speranza è sì. Accanto ai tanti episodi di complicità col razzismo di Stato che fu imposto dal regime fascista, soprattutto dopo l’Armistizio dell’8 Settembre, ci furono italiani che espressero una solidarietà concreta agli Ebrei, nascondendoli o salvandoli dalla caccia all’uomo, dagli arresti  e dalle deportazioni scatenate dai nazi-fascisti. Anche in questo particolare momento storico, abbiamo esempi, non quanti ne avremmo voluti, ma ne abbiamo, di come gli italiani cercarono di salvare altri italiani di religione ebraica».

Possiamo allora essere fiduciosi per il futuro?

 «E’ a quell’esempio che dobbiamo aggrapparci anche per il futuro, nel senso che ci sono sicuramente italiani razzisti anche oggi, ma esistono pure italiani che a questo si ribellano. La lezione che pertanto dobbiamo mutuare da allora è che se la ribellione partì soltanto dopo l’Armistizio e la nascita della Resistenza, quindi con un ritardo di alcuni anni, rispetto al ’38, oggi quel ritardo sarebbe inaccettabile».

Dai titoli dei suoi lavori si comprende quanto spazio e tempo lei e Marco Palmieri avete dedicato alla raccolta di testimonianze personali. Quanto è importante per uno storico della Resistenza dare voce al singolo?

«La testimonianza personale, soprattutto quella coeva, cioè non successiva ai fatti storici indagati e quindi non viziata da interpretazioni a posteriori, credo possa essere un contributo originale per capire cosa è accaduto davvero in quei momenti storici. Il modo in cui quell’avvenimento storico è stato vissuto dal protagonista ci aiuta a capirne meglio le dinamiche. Fra l’altro per quanto riguarda la Resistenza ci aiuta a individuare nell’eroismo dei  singoli la fragilità e la forza delle persone».

Il singolo quindi evita la creazione dello stereotipo a proposito di questo periodo storico?

«Ada Gobetti diceva che bisogna evitare che la Resistenza sia chiusa in un museo, nel senso che rappresentare retoricamente alcuni avvenimenti storici ha l’effetto di allontanarci da essi, occorre invece rappresentarli nella loro umanità. Emanuele Artom, partigiano ebreo, affermava che un giorno  ci sarebbe stato bisogno di raccontare questi avvenimenti nella loro interezza, con le persone che si battevano per il ritorno alla democrazia , ma accanto a queste i ladri e i furfanti che inevitabilmente si erano infiltrati. Quello che dobbiamo cercare di fare, quindi, è rappresentare le pagine di storia in modo articolato, senza volerle ammantare di eroismo a tutti i costi, oppure  ammorbidirne le vergogne».

 L’Europa secondo lei ha affrontato appieno la propria storia o esiste ancora la rimozione  dalle coscienze collettive dei Paesi di ciò che è stato?

«Uno dei problemi più grandi delle società moderne europee è che solo in parte sono stati fatti i conti la propria storia. La guerra fredda ha avuto come effetto “l’armadio della vergogna” ovvero la messa da parte di quelle pagine della storia che erano scomode per la situazione del quadro internazionale che si veniva creando, come appunto gli eccidi nazisti e fascisti. Nel momento in cui la Germania dell’Ovest era il baluardo per evitare una espansione sovietica, andare a rimestare quelle che erano le responsabilità degli eccidi tedeschi, era, da un punto di vista internazionale, scomodo».

E l’Italia come è messa a questo proposito?

 «Così accade pure per l’Italia, nel momento in cui doveva legittimarsi come nazione che aveva fatto la Resistenza e che per questo doveva essere trattata meglio degli altri paesi responsabili della guerra. Prendere in considerazione le sue responsabilità non era perciò funzionale al ruolo che si voleva dare all’Italia e al riabilitarla nel quadro internazionale.  Quindi la guerra fredda nei suoi nefasti effetti ha avuto anche quello di mettere da parte pagine essenziali di storia, di cui ancora poco si parla, anche per esempio quella degli internati militari  tra le altre».

Per finire cosa significa, allora, per un Paese non fare i conti con la propria storia?

«Questo non fare i conti con la propria storia alla fine rischia, col passare del tempo, di non far considerare lo spettro del razzismo che è insisto nella nostra società. In Italia, per esempio, sarebbe ancora impensabile fare una mostra fotografica come quella realizzata qualche anno fa a Berlino in cui si sono mostrate delle fotografie del consenso enorme che c’era verso Hitler. Una mostra simile su Mussolini e il suo consenso, adesso sembrerebbe ancora difficile. Creare un museo sul fascismo si configurerebbe come reato di apologia, quando invece un museo su quello che ha significato la dittatura fascista potrebbe rivelarsi molto utile a capire cosa accadde al nostro Paese».

avaglianoavagliano

Condividi su:
Foto dell'autore

Maria Teresa Radogna

Lascia un commento