Quando un uomo della levatura di Amos Oz, scrittore, saggista, professore universitario, uomo di e per la pace, scompare, qualcosa nelle corde dell’animo non può che risuonare, come una sorta di allarme che avvisa che d’ora in avanti nulla sarà più lo stesso. Autore di 18 libri in lingua ebraica e circa 450 tra articoli e saggi, le sue opere sono state tradotte in circa 30 lingue. Nel 1998, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dello Stato Israeliano, riceve il Premio Israele per la letteratura. Nel 2005 la città di Francoforte lo insignisce del Premio Goethe alla carriera, assegnato in passato a intellettuali del calibro di Sigmund Freud e Thomas Mann. Nel 2007 è la volta del Premio Principe delle Asturie per la Letteratura, mentre nel 2008 gli tocca il Premio Heinrich Heine dalla città di Düsseldorf. Nel 2010 vince la prima edizione del Premio Salone Internazionale del Libro, assegnatagli dal voto elettronico dei visitatori ed editori della manifestazione. Ma egli non era solo questo. Sì, perché Amos Oz era soprattutto una pietra di inciampo sul cammino di tutti coloro che si sentivano sicuri spacciatori di verità, laddove egli si faceva, con acribia, fautore del compromesso. Non quello che in Europa emana l’olezzo della mancanza di onestà e integrità, ma quello che da cittadino di una città complicata come Gerusalemme, ha il sentore prezioso della volontà di vita e di incontro con l’altro, a metà strada. E con l’Europa, lui, figlio di profughi dal cuore a pezzi, come egli stesso definiva i suoi genitori, ha sempre avuto una sorta di amore non corrisposto, come quello di un ragazzino segretamente innamorato della sua severa istitutrice pronta sempre a puntare il dito, ma inguaribilmente affascinante. Nato Amos Klausner, a quattordici anni si ribellò a suo padre, bibliotecario e intellettuale di Destra nella Gerusalemme del neonato Stato di Israele, si rifugiò in un kibbutz, vera quintessenza di cosa significa una comunità socialista, a guidare trattori e a dissodare la terra, mutando il suo cognome in Oz, che vuol dire coraggio. Ebreo secolare, come amava definirsi, sionista nel senso di convinto assertore della autodeterminazione di qualunque popolo e pertanto anche di quello Ebraico, critico severo delle scelte di Israele quando quelle scelte calpestavano la dignità dell’uomo, Oz era l’uomo che fuggiva a qualunque tentativo di etichettaggio. Riguardo la questione mediorientale affermava che per entrambi i popoli, quello israeliano e quello palestinese, vivere insieme sullo stesso territorio era come “svegliarsi in un ospedale dopo un’anestesia e scoprire di aver subito un’amputazione”, laddove l’ospedale in questione egli lo definiva “fatiscente, con dottori niente affatto meravigliosi e le due famiglie fuori dalla sala operatoria a maledirsi a vicenda e a imprecare contro i medici”. Ma riteneva fondamentale, come lo era stato settant’anni addietro per il popolo ebraico, che i palestinesi avessero anche loro uno stato da chiamare, definitivamente e amorevolmente, casa. Definiva Israele una sorta di film felliniano, ma se gli si chiedeva dove avrebbe voluto vivere rispondeva che se a cadere per la strada in un qualunque paese del mondo c’era il rischio che la gente gli passasse accanto senza reagire, cascare per la strada in Israele significava immediatamente trovare qualcuno disposto ad aiutarlo a rialzarsi. Per questo amava vivere e cadere per la strada in Israele. Anche se poi la persona che lo avesse aiutato a rialzarsi, riconoscendolo, gli avrebbe fatto lo sgambetto facendolo cascare di nuovo. Perché sapeva che, immediatamente dopo, un’altra persona lo avrebbe aiutato, comunque, a rialzarsi. Questo era Amos Oz e tanto altro che non sapremo mai raccontare.