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Itinerario ebraico -“Otto luci per un miracolo”

M.T. Radogna esperta in Ebraismo e didattica della Shoah

E’ quel certo periodo dell’anno in cui il Sole pare possa spegnersi per sempre dentro l’ultimo tramonto. Per questo, sin dalla notte dei tempi, l’uomo, all’appressarsi del solstizio d’inverno, ha trovato mille modi di propiziarsi la luce, celebrandone l’essenza. Ecco allora, tra alberi addobbati e mille lucine colorate di Natale, comparire in alcune piazze delle città italiane gigantesche Channukkiyah. La parola non deve spaventare, si tratta del candelabro a nove bracci con cui il popolo ebraico, sparso per il mondo, celebra una delle feste più allegre e colorate dell’anno, Channukkah. Per scoprirne il significato dobbiamo andare indietro nel tempo di circa duemila trecento anni, ai tempi di re Antioco IV, in pieno ellenismo. A re Antioco capitò in sorte di dover governare popoli diversi, con tradizioni diverse e culture differenti. E come spesso accade la soluzione più semplice fu quella di imporre i costumi del popolo dominante, in questo caso quello greco. Ai  tanti popoli sottomessi,  “semplicemente”, non restava che ellenizzare la loro cultura e quindi il loro credo. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto se uno di questi popoli era quello Ebraico. Se i giovani ebrei erano  affascinati dalla filosofia greca ed  entusiasmati dall’amore per il gymnasium, la palestra,  e gli esercizi ginnici, tutt’altra cosa era imporre loro i variopinti culti greci –  Politeismo e idolatria – due cose che nessun ebreo avrebbe mai potuto accettare. La libertà civile del popolo ebraico coincideva con la sua libertà religiosa. Venuta meno una, inevitabilmente si sopprimeva anche l’altra. Inutile dire come andò la storia: templi giudaici profanati, rotoli della Torah bruciati in pubblica piazza, una discreta quantità di ebrei uccisi, la maggioranza costretta a rinunciare alla propria identità (vennero proibiti lo studio della Torah, la circoncisione e l’osservanza dello Shabbat). Se non che a qualcuno  non andò proprio giù l’idea di chinare la testa. Mattatià, il Kohen Gadol, il sommo sacerdote,  con i suoi cinque figli, si ribellarono e si rifugiarono sui monti della Giudea.  Suo figlio Giuda si pose a capo dei ribelli sulle montagne, una sorta di antesignano della lotta partigiana, e da lì con azioni di guerriglia, “martellarono” il nemico, sconfiggendolo. Per questo  Giuda e i suoi fratelli vennero definiti Maccabei, da maccab, che significa “martello”. Vinta la guerra, riconquistata la libertà, occorreva, però, riconsacrare il Tempio di Gerusalemme, profanato dagli invasori siriani (di cultura greco-ellenica), che avevano imperversato e depredato il Tempio di tutti i suoi beni, persino l’olio appositamente consacrato per l’accensione del Ner Tamid ( la lampada sacra che non doveva mai spegnersi posta di fronte all’Arca della Sacra Alleanza). Solo un’ampollina era rimasta sigillata. Non abbastanza per illuminare il Tempio. Ed erano necessari otto giorni per preparare dell’altro olio. Cosa fare? Riconsacrare subito il Tempio, pur sapendo che l’olio non sarebbe bastato alla cerimonia di riconsacrazione, o attendere gli otto giorni necessari perché fosse pronto il nuovo olio? E qui l’ atto di fede sopravanza la ragione e, inspiegabilmente, accadde il miracolo:  quell’olio che sarebbe  dovuto bastare solo per poche ore, durò esattamente gli otto giorni necessari a prepararne del nuovo e la fiamma non si spense. Una bella storia di resilienza umana, che mostra come non sia mai semplice soffocare l’identità di un popolo, soprattutto quando questo è mosso da una fede incrollabile nella propria cultura e nei propri ideali. Si possono annientare gli uomini, bruciare i libri, ma l’identità e la speranza di un popolo sopravvivono. E’ la fiamma che nessun atto di violenza potrà mai spegnere, come le luci che brillano sulla Channukkiya, che ricordano gli otto giorni del miracolo! Dedicato a tutti i popoli che lottano per mantenere accesa quella fiamma, perché continuino a sperare che il Sole non è giunto all’ultimo tramonto sulla loro storia.

 

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Foto dell'autore

Maria Teresa Radogna

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