«Dolori insopportabili e invalidanti, ma per tutti era lo stress». Esordisce così Loredana, una giovane donna colpita da una delle malattie più insidiose e misteriose del nostro tempo: l’endometriosi. Si calcola che il 10% delle donne europee ne sia affetta. Poco conosciuta, complessa e dall’andamento cronico, l’endometriosi è una patologia da cui non si guarisce facilmente. Studi recenti l’hanno annoverata fra le malattie ormono-dipendenti più subdole proprio per il suo esordio fuorviante che ne ostacolerebbe la diagnosi precoce e le cure tempestive.Al contrario, la rapida identificazione della malattia, eviterebbe, alle donne, una serie di drammatiche sofferenze psicofisiche: dall’aborto spontaneo alla sterilità. Infatti, la presenza irregolare del tessuto dell’endometrio uterino in altri organi, come intestino, vescica e finanche polmoni, darebbe luogo a infiammazioni croniche degli organi colpiti con conseguenze facilmente ipotizzabili. Nel caso di ovaie, tube, peritoneo e vagina, verrebbe compromessa gradualmente la loro naturale funzionalità, rendendo la donna inevitabilmente sterile. Ciononostante di questa malattia se ne parla sempre troppo poco. E solo di recente è nato un Registro e un Osservatorio Nazionale sulla patologia a sostengono della ricerca e delle cure. Un altro importante lavoro è quello svolto dalle associazioni (Fondazione Italiana Endometriosi; Associazione Progetto Endometriosi – Apeonlus.it; Centro Nazionale Endometriosi), punto fermo per tante donne ammalate. Il 13 marzo 2013 è stata anche istituita la prima “Giornata Mondiale dell’Endometriosi”, con il fine di sensibilizzare sempre più opinione pubblica e Governo. Si tratta, dicono gli esperti, di una patologia “sociale” che ha assunto, purtroppo, i caratteri dell’emergenza. Tante le proposte, i disegni di legge e gli interventi anche su base regionale per predisporre percorsi di prevenzione mirata alle complicanze della malattia. «Le prime avvisaglie del male – racconta Loredana –, le ho avute intorno ai vent’anni. Dolori e crampi diffusi nel periodo mestruale. Spossatezza e linee di febbre. Roba da poco per la mia ginecologa. Per lei tutto nella norma. Poi però le cose hanno preso un’altra direzione. Ricordo che al terzo anno di Università i dolori erano così forti, e non più circoscritti al periodo mestruale, da impedirmi ogni tipo di attività. Pian piano ho cominciato a eliminare dalla mia vita le cose a cui tenevo di più: dal tennis, allo sport in generale, alla semplice passeggiata con le amiche. L’unico svago che potevo concedermi era l’uscita col mio fidanzato che, conoscendo i miei problemi, non mi faceva domande. Spesso ero costretta a rimanere a letto tutta la giornata con lineette di febbre che mi spossavano. Ben presto cominciarono i primi forti disturbi intestinali e i dolori lancinanti a una gamba che non mi permettevano di stare in piedi per molto tempo. E poi la schiena, fino al bacino…tutto compromesso! A un certo punto non riuscivo a stare più, né in piedi, né seduta, né sdraiata. Sono andata avanti così per diversi anni. Ricordo ancora con angoscia il giorno della mia laurea. Stringevo i denti mentre relazionavo. Anni di sofferenze in cui brancolavo e brancolavano nel buio. Anni di analisi, ricoveri, visite specialistiche senza alcun esito. Per tutti ero ormai “la malata immaginaria”. Ogni discorso si concludeva con la parolina magica “stress”. Ma io non mi sentivo “stressata”. Al contrario ero perfettamente lucida e consapevole di non essere compresa, ascoltata, creduta, aiutata. Ed è la cosa che più mi ha fatto soffrire. Provare male e non poterlo dimostrare è insopportabilmente frustrante. Mi sentivo offesa perché tutti continuavano a dubitare della mia integrità psicologica. Dopo oltre 10 anni di sofferenze inascoltate, durante l’ennesima visita, dall’ennesimo specialista fu finalmente ipotizzata la malattia. E solamente dopo due interventi chirurgici esplorativi, fu evidenziata, a livello di organi importanti, una massiccia diffusione di focolai, cisti e aderenze endometriosiche. Da un lato fu una liberazione. Finalmente avevo dato un nome al mio dolore. Dall’altro, fu l’inizio di un percorso doloroso con sentenza definitiva: ero sterile. Troppi anni erano passati dai primi sintomi non compresi. Troppo per lasciare a me e al mio fidanzato, ora marito, qualche possibilità di diventare genitori»